top of page

“Alza la coppa!”. Tifo o rito religioso?

La bella vittoria della nazionale agli Europei viene descritta come una rappresentazione di un culto di massa, con molti elementi e terminologie di carattere quasi ‘sacro’. Limitiamoci qui a quanto leggiamo sulla Repubblica del 13 luglio. La vittoria viene definita come “una rinascita” (pag. 6), “una magnifica resurrezione (pag. 7), dove è stato il bel gioco espresso dagli Azzurri ad averli spinti “fino al cielo (pag. 7), grazie a un grande spirito di squadra” (pag. 7). Naturale quindi che, davanti a tanta sacralità, il tifo espresso dai tanti giovani scesi in piazza venga visto come un “rito” (pag. 28).

Ma la religiosità popolare ha bisogno non solo di eroi vincenti, ma anche di simboli. Ed ecco che la coppa conquistata diventa icona, oggetto sacro da ostentare e adorare. Esagerazione?

Sentiamo come commenta il giornalista e scrittore Gabriele Romagnoli, sempre nelle pagine di Repubblica: «Portata oltre la soglia più alta come una sposa. Offerta ai presidenti. Dedicata agli assenti. In ostensione al popolo, che crede, certo, ma se vede non guasta, perché possa convincersi oltre ogni irragionevole dubbio che il suo piccolo grande sogno d’inizio estate si è avverato. Ecco la prova. Ecco la coppa. In remissione di qualche peccato e lenimento di passate sofferenze. In questo segno hanno vinto. Il successo ha bisogno del simbolo, dell’oggetto che lo fa passare da astratto a concreto attraverso una rappresentazione convenzionale: la fusione di aspirazione e realizzazione, desiderio e metallo, impossibile e già trascorso. “Alza la coppa!” perché quello è il gesto rituale, che porta al cielo non la supplica ma il compimento… la coppa è per tutti… per quelli che la possono toccare ma anche soltanto vedere. È il feticcio…» (pag. 2).

Tutti questi commenti sono intrisi di un incredibile numero di riferimenti sia alla fede cristiana biblica, che a quella più popolare, quasi pagana, di cui è intriso ogni ambiente religioso nominale. Ed ecco quindi l’ostensione pubblica della coppa, come ogni statua o altro simbolo religioso da mostrare al popolo; ecco la fede, ma quella che ha bisogno di prove, di vedere e toccare per credere, come quella del dubbioso discepolo Tommaso (Giovanni 20:25); la coppa, non il sacrificio di Gesù, vista come remissione dei nostri peccati, delle nostre sofferenze (Isaia 53:5); e poi ancora la coppa al posto della croce (chiarissimo il riferimento a in hoc signo vinces ‘in questo segno vincerai’ che la leggenda dice avrebbe visto apparire in cielo l’imperatore romano Costantino e che sarebbe diventato simbolo di vittoria, oltre che di ‘conversione’); la coppa come il vitello d’oro, metallo fuso dagli Ebrei appena usciti dall’Egitto e diventato oggetto di culto, dio stesso da adorare, al posto del vero Dio che li aveva liberati dalla schiavitù (Esodo 32:1-8); la coppa, elevata al cielo al posto delle preghiere di lode a Dio per la grazia ricevuta dopo le suppliche (Filippesi 4:6), ...

Ma parlando di vera fede in Dio, abbiamo anche noi bisogni di questi rituali, della rappresentazione del divino fatta a nostra misura, del simbolo invece che della realtà? Abbiamo anche noi bisogno di vedere, di toccare, per vivere la nostra religiosità? Abbiamo anche noi bisogno, come nello sport, di un rito collettivo, di un oggetto da venerare per poter gioire, ma di una gioia che lo stesso giornalista riconosce come “un feticcio dal dominio transitorio… una vertigine di passaggio…” che “vive di luce effimera”?

Eppure, ieri come oggi, sembra che si senta il bisogno di tutto questo (invitiamo a leggere, riguardo a questo, l’incredibile e appassionato commento di Dio fatto per bocca del profeta in Isaia 44:8-20).

Ma la fede salvifica è un’altra cosa. Non ha bisogno di vedere e toccare, come Gesù disse a Tommaso: Perché mi hai visto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!(Giovanni 20:29). Colui che crede non ne ha bisogno perché “la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono” (Ebrei 1:11). E questo non vuole dire non avere gioia, anche se non ci sono simboli o riti di massa, se non ci sono coppe da alzare o oggetti da toccare. A chi crede basta la fede in Gesù per gioire: Benché non lo abbiate visto, voi lo amate; credendo in lui, benché ora non lo vediate, voi esultate di gioia ineffabile e gloriosa, ottenendo il fine della vostra fede: la salvezza delle anime. (1 Pietro 1:8-9).











59 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page